Amati Mehler J, Argentieri S., Canestri J., La Babele dell’inconscio, Cortina ed., 1990, Milano (Recensione: Wimbleton, settembre 1991)

Amati Mehler J, Argentieri S., Canestri J., La Babele dell’inconscio, Cortina ed., 1990, Milano (Recensione: Wimbleton, settembre 1991)

Perché certe persone riescono a parlare, con gran facilità, diverse lingue, mentre altri faticano molto ogni volta che devono staccarsi dalla “lingua madre” per apprendere un idioma straniero? Possiamo ancora dare credito al vecchio pregiudizio che l’allevamento bilingue danneggi irreparabilmente lo sviluppo cognitivo e verbale dei bambini? Che peso hanno, in questi casi, le eventuali vicende di emigrazione e di separazione nel contesto affettivo e familiare in cui si impara a parlare? Il problema della comunicazione tra individui e popoli che parlano lingue diverse è uno dei più urgenti della nostra epoca cosmopolita (J. Amati Mehler, S. Argentieri, J. Canestri: La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica. Raffaello Cortina Ed. Milano). Cosa comporta – sul terreno più squisitamente psicoanalitico – il fatto oggi sempre più frequente, che tra analista e paziente la comunicazione si svolga in un idioma che per l’uno o per l’altro è una lingua straniera, e che quindi – al di là della competenza lessicale e sintattica – è costruita con parole che hanno una diversa “storia interna”, che evocano diverse immagini originarie e diverse associazioni nei due protagonisti del rapporto terapeutico? Non solo nella situazione analitica, ma nella vita stessa, cosa accade quando si pensa, si parla, si sogna in più lingue? Come avviene il processo di “traduzione” interna da un idioma all’altro nella mente di un polilingue? Essere “abitati” da più lingue è una ricchezza o una condanna alla confusione interiore? Per affrontare questi e tanti altri problemi sul tema del polilinguismo/poliglottismo nella dimensione psicoanalitica, gli autori alternano nella loro trattazione esperienze cliniche con riflessioni teoriche, note autobiografiche con esempi letterari, tratti da quella non piccola schiera di autori – come Beckett, Canetti, Bianciotti, Ulhman, Nabokov… – che, in una segreta alchimia tra sofferenza psichica e creatività, hanno abbandonato la lingua madre per scrivere in una seconda lingua di adozione. E’ comunque notevole che su questo argomento dei processi mentali connessi all’intreccio linguistico la letteratura psicoanalitica continui ad essere molto scarsa; soprattutto se la confrontiamo con il grande sviluppo di riflessioni e di scritti che convergono invece intorno a questo problema da parte di studiosi che operano in altri campi del sa-pere, come la psicolinguistica, le neuroscienze, la sociologia. Il libro si articola secondo vari piani: da quello personale “autobiografico” a quello “teorico”; continuamente, inoltre, le riflessioni e le ipotesi speculative sono intercalate da casi clinici, che illustrano come le vicissitudini delle lingue si intreccino significativa-mente sia con lo sviluppo della patologia (scissioni, rimozioni…) sia col processo stesso della cura (integrazioni e recupero di antichi linguaggi dimenticati). Le ipotesi conclusive alla quale gli autori giungono è che davvero “Babele”, come frammentazione dell’unità e come fatica perenne verso la conquista della comunicazione, sia interpersonale sia intrapsichica, è il destino del polilingue. Comunque, essendo ciascuno di noi abituato ad una “pluralità discorsiva”, costituita da sfumature dialettali, da residui del discorso infantile e da lessici familiari, “Babele” è anche il destino di coloro che conoscono una lingua sola.

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