Dalla psicoanalisi alle psicoterapie psicoanalitiche brevi

Dalla psicoanalisi alle psicoterapie psicoanalitiche brevi

Pubblicato in: Di Giannantonio M., Alessandrini M. (2012), Manuale di psicoterapia psicoanalitica breve, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma.

DALLA PSICOANALISI ALLE PSICOTERAPIE PSICOANALITICHE BREVI

Alberto Angelini

Preistoria e nascita della psicoanalisi

Ciò che è, attualmente, indicato come psicoterapia deriva, storicamente, in larga parte, dalla originaria pratica e teoria della psicoanalisi. Per riflettere, quindi sulla dimensione contemporanea della psicoterapia si deve indagare sull’origine e sul significato generale della psicoanalisi.

Nella seconda metà dell’ottocento, la psichiatria, da cui Sigmund Freud prese le mosse, era dominata da preoccupazioni classificatorie, di tipo descrittivo. Permaneva, la distinzione cartesiana tra “res cogitans” e “res extensa”, che separava, rigidamente, la materia dallo spirito. Non esisteva il concetto moderno di psiche; lo psichico veniva confuso con lo spirituale e, “poiché lo spirito non è suscettibile di malattia, il disturbo psichico, anche con l’autorità del clinico tedesco Emil Kraepelin, veniva imputato ad un ipotetico disturbo organico cerebrale” (Fornari, 1966, 8).

L’origine di una teoria capace di affermare la natura autonoma dei disturbi psichici è legata alla esperienza dell’ipnosi; ovvero all’impiego della suggestione in ambito terapeutico.

Negli ultimi decenni dell’ottocento, l’ipnosi era abbastanza diffusa nella pratica medica. Il grande clinico Jean Martin Charcot la praticava alla Salpetriére di Parigi, riuscendo a far apparire e scomparire i sintomi della, così definita, isteria. Tuttavia, non riteneva ciò sufficiente per affermare la natura autonoma dei disturbi psichici. Charcot, infatti, credeva che l’ipnosi si potesse praticare solo in soggetti isterici e che l’isteria fosse dovuta ad una degenerazione del sistema nervoso.

Furono gli esperimenti di Hippolyte Bernheim, che Freud osservò personalmente a Nancy, a stabilire come i fenomeni dell’ipnosi fossero riconducibili ad una forma particolare di suggestione. In quel contesto si accertò che la suggestionabilità è una prerogativa sia delle persone normali, sia dei malati di nervi. In sostanza, se era possibile, per mezzo della suggestione, indurre l’ipnosi e modificare radicalmente lo stato psichico in persone normali, allora anche il disturbo psichico, per il suo verificarsi, non avrebbe richiesto alcuna alterazione organica cerebrale come conditio sine qua non.

Dopo la permanenza in Francia, dove aveva osservato le esperienze di Charcot e di Bernheim, Freud ritornò a Vienna e iniziò una collaborazione con Joseph Breuer nella cura dei pazienti isterici.

Breuer aveva constatato come, sotto ipnosi, l’evocazione di ricordi penosi dimenticati in pazienti isterici, portasse ad una scomparsa o ad un ridimensionamento, almeno temporaneo, dei sintomi. In relazione a questo fenomeno, definito da Breuer catartico, si poteva semplicemente affermare che l’insorgere dei disturbi psichici fosse dovuto al fatto che le persone avevano dimenticato avvenimenti penosi della propria vita. Gli isterici potevano essere considerati degli ammalati di ricordi.

Da qui presero avvio le considerazioni fondamentali che sono alla base della psicoanalisi e dello sviluppo della psicoterapia moderna. Se un avvenimento penoso dimenticato poteva determinare dei disturbi psichici, si deduceva che le rappresentazioni psichiche dell’episodio penoso dimenticato continuavano ad agire e a produrre effetti, nella personalità del soggetto, pur restando al di fuori del campo della coscienza. Con ciò si attivava l’interesse per quel vasto mondo psichico obliato, chiamato appunto inconscio e per il significato che esso può assumere nella vita mentale e reale della persona.

Freud paragonò questo spostamento d’interesse al passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano.

Dall’esperienza clinica dell’ipnosi si sviluppò e si impose la teoria dell’inconscio.

Le esperienze suggestive esercitate sui pazienti in stato di ipnosi si caratterizzarono come una forma particolare di rapporto tra persone; un rapporto suggestivo dotato di potenti capacità terapeutiche. I disturbi psichici, nel rapporto ipnotico, potevano apparire e scomparire.

Con ciò, storicamente e concettualmente, la relazione interumana ed estensivamente l’ambiente sociale, potevano essere considerati sia come sede di un processo psicopatologico, sia come ambito del processo psicoterapeutico. È un momento essenziale, scientificamente, per la nascente psicoanalisi.

Permaneva, nell’ipnosi, la tendenza ad un rapporto di dominazione che trasformava il paziente da soggetto in oggetto, producendo quelli che, allora, venivano considerati ostacoli alla terapia. Valga come esempio l’innamoramento della paziente isterica curata da Breuer, per il suo terapeuta.

Anche per questo Freud abbandonò ben presto la tecnica ipnotica, optando per l’instaurazione di un rapporto vigile con il paziente; sebbene la tipica posizione del trattamento psicoanalitico, con il terapeuta seduto dietro al divano, sia considerata un residuo dell’ipnosi. Su un piano storico, è in questo contesto che si costituì, in senso specifico, il significato più profondo del rapporto psicoanalitico “come accadimento interumano nel quale vengono mobilitate le forze affettive originarie che legano gli esseri umani fra loro”(Fornari 1966, 12).

La psicoanalisi esige che anche il rapporto tra paziente e terapeuta venga indagato in termini di conoscenza scientifica. Tale indagine consta di una “presa di coscienza”, realizzata alla luce di una teoria psicologica della mente.

Freud, nello sviluppo della sua opera, ha dato varie definizioni della psicoanalisi. La più esplicita del 1922, afferma che: “Psicoanalisi è il nome:

1) di un procedimento per l’indagine di processi mentali che sono pressoché inaccessibili per altra via.

2) di un metodo terapeutico fondato su tale indagine per il trattamento di disturbi nevrotici.

3) di una serie di concezioni psicologiche acquisite per questa via e che gradualmente convergono in una nuova disciplina scientifica (Freud, 1922, 439).

Questi tre aspetti sono assolutamente interconnessi tra loro. Storicamente, considerare l’interumano sia come sede dei processi psicopatologici, che dei processi psicoterapeutici ha aperto decisive potenzialità scientifiche e teoriche. Non fu una scoperta accettata facilmente. Abbandonando il concetto di costituzione degenerativa di Kraepelin, veniva accolto il punto di vista puramente psichico. Lo psichismo, inevitabilmente, si confrontava con la dimensione ambientale e sociale del soggetto.

L’esplorazione sistematica dello psichismo inconscio, attuata primariamente tramite l’analisi dei sogni, portò alla constatazione che, inconsciamente, gli esseri umani sono molto più asociali di quanto non credano di essere, nella loro coscienza. Divenne allora chiaro che il processo di acculturazione umano, cui l’individuo è sottoposto fin dalla nascita, tende a far cadere nell’oblio le tendenze istintive asociali; ma esse conservano, nell’inconscio, la loro energia originaria.

Il disturbo psichico fu individuato come il possibile risultato di conflitti insorti all’interno dell’individuo stesso. Questi conflitti si manifestavano come collegati alla antitesi tra istinti  e cultura. Gli istinti venivano considerati come un patrimonio biologico dell’individuo; la cultura come un dato dell’ambiente storico e sociale. Per comprendere la malattia psichica era indispensabile non separare l’individuo dalla sua nevrosi; ma la nevrosi diveniva comprensibile solo in quanto veniva collegata alla storia e al contesto ambientale del soggetto.

Concettualmente, ciò corrispondeva ad eliminare la separazione tra normalità e malattia, poiché il conflitto tra istinti e cultura è costitutivo, socialmente ed etiologicamente, della condizione, antropologica ed esistenziale umana. Il processo di acculturazione si realizza proprio nella trasmissione storica interindividuale dei valori sociali; quindi l’insorgenza del conflitto si sposta dall’area della costituzione biologica al mondo storico-culturale dei rapporti interumani.

E’in questa dimensione, di natura antropologica, che la psicoanalisi individuò le grandi tematiche edipiche, da sempre occultate per effetto dell’oblio garantito da specifiche difese repressive.

Sostanzialmente, la forza istintuale della sessualità e dell’aggressività, senza limitazioni, configurano il contenuto del complesso di Edipo, che rivela, nel linguaggio psicoanalitico, il suo antico significato mitologico.

L’enigma delle nevrosi, che aveva alimentato la ricerca medica, a partire dallo studio dei sintomi isterici, sfociava in problemi assolutamente nuovi ed estranei al pensiero psichiatrico.

Freud, fin dall’inizio, con il primitivo modello “trauma-affetto”, in cui l’eccesso di sentimenti inaccettabili può dare adito a sintomi psicopatologici, prese in considerazione l’impatto della realtà esterna sulla produzione dei sintomi. Da qui sorse il suo interesse per la presenza e il peso degli abusi sessuali in età infantile.

Nella prima fase della sua attività, Freud (1899) propose il “modello topografico” della mente o prima topica, in cui viene delineata una organizzazione spaziale delle funzioni mentali. In questa teoria, la mente è divisa in tre sistemi: inconscio, preconscio e conscio. L’inconscio contiene materiale rimosso, tendenzialmente inaccessibile al soggetto. La rimozione è il meccanismo di difesa principale; ovvero è il processo con cui un desiderio o una rappresentazione sono tenuti fuori dalla coscienza in quanto inaccettabili all’Io, perché disadattativi, o al Super-Io, perché vanno contro i principi morali. “Al di sopra” dell’inconscio vero e proprio ci sono idee inconsce, ma accessibili, nel preconscio. Infine vi è il sistema conscio, corrispondente al funzionamento del raziocinio. Il processo di pensiero primario inconscio (sogni e fantasie) non segue le leggi della razionalità e della logica; mentre il processo di pensiero secondario conscio è caratterizzato, appunto, dalla razionalità e dalla consapevolezza.

Nel 1922, con l’opera L’Io e l’Es,nella concezione di Freud avvengono importanti cambiamenti, con la formulazione della teoria strutturale, o seconda topica. Questa fase culmina in una più netta descrizione della vita psichica pulsionale. La mente è distinta concettualmente in tre parti: Io, Super Io ed Es. L’Es è un prodotto della dotazione biologica e indica le pulsioni innate (sessualità e aggressività,) che cercano di ottenere soddisfacimento. L’Io è una istanza che corrisponde alla capacità di pensiero razionale e di valutazione della realtà. Il Super-Io è una nuova elaborazione, il cui ruolo è assimilabile a quello di un giudice o di un censore nei confronti dell’Io. Esso ha costituito una importante fonte di dati per la ricerca e la comprensione clinica, soprattutto per quel che riguarda il ruolo dell’angoscia e della colpa inconsce. Freud considera, come funzioni del Super-Io, la coscienza morale, l’autosservazione e la formazione di ideali (Freud, 1922a). Scrivono Laplanche e Pontalis: “Classicamente, il Super-Io è definito come l’erede del complesso di Edipo; esso si costituisce per interiorizzazione delle esigenze e dei divieti dei genitori” (1967, 591). Questo concetto, più degli altri, ribadisce l’esigenza di collocare il conflitto psichico nel contesto interpersonale e ambientale (1).

Nei medesimi anni in cui Freud rifletteva su queste idee, un piccolo gruppo di giovani entusiasti, nella zona estrema dell’Europa, l’Unione Sovietica, accoglieva e propugnava con forza i concetti psicoanalitici. Fra essi spiccano i nomi di personalità, come L. S. Vygotskij e A. R. Luria, che avrebbero poi ampiamente arricchito e modificato la psicologia del novecento. Costoro, in virtù di validi contributi scientifici, collegarono, nella sostanza, la psicoanalisi, come teoria e tecnica di cura, al più vasto contesto dello sviluppo storico e culturale della persona (Vygotskij L. S. & Luria A. R., 1925; Luria, 1925). Proprio Luria, in una intervista della tarda maturità, ricordando gli anni venti a Mosca, affermò che diversi psicologi, lui compreso, “ritennero che la psicoanalisi fosse la migliore impostazione scientifica nello studio della personalità…che le leggi dei processi psicologici studiate da Freud permettessero di analizzare concretamente la vita mentale salvaguardando tuttavia il rigore scientifico” (in: Cole M. & S., 1977, 41). Poco tempo dopo, non solo la psicoanalisi, ma l’intera scienza sovietica si sarebbe cristallizzata attorno a rigide posizioni ideologiche, segnando il passo per decenni.

La storicizzazione della psicoanalisi in Russia

Il primo paese in cui la psicoanalisi si diffuse fu la Russia, dove le opere di Freud iniziarono a essere tradotte a partire dal 1909 (Angelini, 1988; Etkind, 1993; Miller, 1998). Ciò avvenne molto prima che il pensiero psicoanalitico fosse conosciuto in contesti come la Francia o l’Italia. La fondazione di una prima Società Psicoanalitica Russa, a Mosca, è documentata fin dal 1911. Ma fu dopo la guerra e la rivoluzione d’Ottobre che la psicoanalisi visse, in Russia, un periodo fulgido, anche se troppo breve del suo sviluppo. Una seconda Società Psicoanalitica fu fondata a Kazan, da Alexander R. Luria e il nuovo Stato Sovietico, inizialmente, accolse positivamente e con interesse le idee freudiane. Personalità come il suddetto Luria, padre della neuropsicologia contemporanea e Lev S. Vygotskij, fondatore della scuola psicologica “storico culturale”, frequentarono assieme, negli anni che seguirono la rivoluzione, la rinnovata Società Psicoanalitica di Mosca, producendo importanti contributi scientifici, in ambito psicoanalitico. La psicoanalisi, per una troppo breve stagione post rivoluzionaria, si diffuse in quasi tutta la Russia (Angelini, 2002), prima di venire travolta dal ciclone politico che, perniciosamente, giunse ad imperversare per tutto il paese.

Nell’ambito limitato di questo lavoro interessa indicare come la psicoanalisi, nel contesto sovietico, si sia avviata verso un processo di storicizzazione.

Ciò significa che il modello psicoanalitico della mente fu concepito e interpretato, dagli studiosi russi del secolo scorso, come un processo storico in divenire, relativamente alla realtà esterna e in virtù della medesima. Sul piano dei concetti, la storicizzazione della psiche umana è il maggior contributo, nello sviluppo della psicoanalisi e della psicologia, offerto dai pensatori sovietici.

Si deve tener presente che, in entrambi i modelli freudiani, sia il “modello topografico” del 1899 (prima topica), sia la teoria strutturale del 1922 (seconda topica), la psicoanalisi individua nell’azione del mondo esterno e, particolarmente, nell’educazione rivolta al bambino nella fase evolutiva, la fondamentale causa efficiente che porta alla produzione del rimosso e alla costruzione della cosiddetta coscienza morale, ovvero del Super-Io. Questa è una constatazione di valore epistemologico che colloca, oggettivamente, una parte dei contenuti e delle stesse modalità del funzionamento psichico nell’ambito del mondo esterno e nelle caratteristiche qualità delle relazioni storiche; ovvero nella società e nella cultura.

Un nutrito gruppo di giovani entusiasti partecipò all’affermarsi del pensiero psicoanalitico. Tra questi: V.Schmidt, P.P. Blonskij, M.A Rejsner, B.E. Bychovskij, B.D.Fridman, A.B. Zalkind e altri (Angelini, 2008).

In un contesto scientifico separato dal mondo degli psicoanalisti, anche Michail Bachtin (1927), tra i massimi teorici russi della letteratura, produsse importanti contributi sul pensiero psicoanalitico e sulla concezione della psiche (Ponzio, 2005). Senza volersi addentrare, qui, nelle raffinate opzioni teoriche offerte dai vari studiosi, è opportuno però ribadire che questa visione della psicoanalisi avrebbe poi molto influenzato il modo di concepire la pratica terapeutica dei Russi. Personaggi come Alexander R. Luria, anche dopo la definitiva scomparsa della psicoanalisi in Russia, avrebbero sempre mantenuto, nel loro lavoro clinico, una prospettiva metodologica proveniente dal pensiero psicoanalitico (Luria, 1976). Ciò si evince dall’approccio idiografico al paziente, dall’approfondimento della singola storia clinica, dalla valutazione complessiva dei diversi fenomeni psichici esaminati e così via. Senza mai perdere il costante aggancio e confronto con la clinica, proprio Luria avrebbe sviluppato una concezione storicizzata della psiche, inizialmente collegata all’ambito psicoanalitico (Luria, 1926, 1928). Sempre Luria, in seguito, avrebbe scritto che per comprendere la psiche umana “è necessario uscire dai confini dell’organismo (corsivo agg.) e cercarne le radici nelle condizioni sociali, nei rapporti degli infanti con gli adulti, nella realtà obbiettiva oggettuale, negli strumenti e nella lingua quali vengono modellati storicamente, cioè nell’assimilazione dell’esperienza collettiva determinatasi storicamente” (Luria, 1971, 24). La mente dell’individuo, in sostanza, deve essere concepita, anche nelle sue manifestazioni psicopatologiche, all’interno della più vasta storia del mondo sociale e culturale in cui egli vive. E’ evidente che questa prospettiva ha un forte valore epistemologico e giunge a influenzare profondamente il modo di concepire e praticare la psicoanalisi e la psicoterapia. Essa, purtroppo, rimase del tutto sconosciuta in occidente, a causa del contrasto politico tra i due blocchi, orientale ed occidentale, che contrapposero anche la vita scientifica delle rispettive fazioni (2). Le stesse opere di uno dei maggiori pensatori russi, Lev S. Vygotskij, non furono tradotte in occidente fino agli ultimi decenni del novecento.

Le idee delle psicoanalisi russa raggiunsero anche alcuni psicoanalisti occidentali. Valga qui l’esempio di Otto Fenichel, la cui vita scientifica e personale sembra proporre una analogia con le vicende concettuali della psicoanalisi stessa, nei due continenti. Fenichel, dopo un vivace periodo di vita in Europa, dove partecipò, con molti contributi (Fenichel, 1932, 1934) all’esperienza di una psicoanalisi clinicamente e teoricamente attenta al mondo sociale, fu costretto, con l’avvento del nazismo ad emigrare negli Usa (Angelini, 2010). Qui la sua vita scientifica mutò radicalmente, in virtù di un contesto che lo spinse ad occuparsi, prevalentemente di questioni tecniche o particolari, accantonando la dimensione complessiva del soggetto umano immerso nel mondo. Fenichel fu anche nella minoranza che, inutilmente, difese in America la pratica della psicoanalisi per gli analisti non medici. Del resto lo stesso Freud condivideva, con i primi psicoanalisti europei emigrati negli USA, l’idea che la cultura americana tendesse a subordinare le concezioni psicoanalitiche ad una psichiatria di stampo pragmatico. Nel passaggio al continente americano, la psicoanalisi perse, sostanzialmente, la maggior parte delle sue potenzialità come strumento di indagine critica verso gli assetti dell’ambiente in cui il soggetto vive e accantonò la sua dimensione conoscitiva riguardo alla vita storica e sociale della persona. Questa constatazione, che non vuole essere un pregiudizio, ha però un forte significato metodologico e implica alcune valutazioni di merito.

La prospettiva tecnica della psicoanalisi negli USA

Andando ad esaminare gli sviluppi della psicoanalisi e della psicoterapia psicoanalitica negli USA, si constata il dominio di un orientamento metodologico per cui la complessità del grande corpo teorico freudiano fu sottovalutata, limitando l’attenzione, quasi esclusivamente, alla tecnica terapeutica. Perciò, la riflessione scientifica sulle differenze tra psicoanalisi e psicoterapie ha incontrato e incontra grandi difficoltà. La psicoanalisi su cui si dibatte da tempo, ristretta alla tecnica terapeutica, non corrisponde all’insieme della originaria proposta freudiana e dei suoi primi sviluppi storici. È una psicoanalisi mirata, essenzialmente, alla clinica; di conseguenza è molto difficile, proprio sul piano dei concetti e della tecnica, distinguerla da una psicoterapia.

Ovviamente, non si vuole dimenticare che la psicoanalisi nacque all’interno di un impegno verso la cura delle psicopatologie; ma non c’è motivo di rinnegare o di trascurare il più vasto ambito delle sue proposte teoriche e delle sue potenzialità, ove da ciò provenga un arricchimento nelle idee e nel metodo. Anzi, è plausibile, concettualmente, che la specificità della psicoanalisi provenga proprio da questa più ampia area d’intervento teorico e pratico di cui dispone, che certamente la differenzia dal bagaglio della psicoterapia.

Negli USA, accadde invece che l’Associazione Psicoanalitica Americana, seguendo una tendenza alla medicalizzazione, decise, nel 1938, di non riconoscere la qualifica di psicoanalista ai non medici. Inoltre, in seguito, la medesima Associazione combatté una lunga battaglia contro le psicoterapie effettuate da psicologi. Questa medicalizzazione statunitense della psicoanalisi, ancor più forte nei concetti che nell’atteggiamento istituzionale, si sviluppò a partire dagli anni trenta e condiziona tutti i discorsi teorici che si possono fare riguardo ai successivi sviluppi della disciplina; inoltre trasporta il confronto con le psicoterapie sul piano esclusivo della tecnica terapeutica.

Tuttavia non si può tacere che, paradossalmente, proprio negli Stati Uniti si manifestò un limitato tentativo di reagire a questa tendenza biologizzante e pragmatica.

Si tratta del movimento dei cosiddetti “Neo-freudiani”, anche noti come “Scuola culturalista”, di cui fecero parte personalità come Harry Stack Sullivan, Karen Horney, Clara Thompson, Abraham Kardiner e, nel settore antropologico, Margaret Mead. Costoro si discostavano dall’ortodossia biologica e pragmatica della psicoanalisi americana, per offrire più attenzione alle dimensioni interpersonali e ambientali. Va comunque precisato che il termine “cultura” non aveva per loro il significato, assunto nel contesto europeo, di una dimensione storica che addirittura umanizza l’individuo. Inoltre, nel tentativo di spostare il baricentro dalla biologia all’ambiente, attaccarono addirittura le basi concettuali della psicoanalisi relative all’istinto ed alla sessualità, negando la loro efficiente determinazione psicologica. Fu proprio Otto Fenichel (1944) ad osservare che il rifiuto della teoria degli istinti equivaleva ad abbandonare, nella sostanza, il terreno psicoanalitico. Negli anni seguenti, Marcuse, uno dei massimi esponenti della Scuola di Francoforte, riecheggiando la convinzione hegeliana che la separazione fra realtà e razionalità conduce al pensiero utopistico, avrebbe correttamente sostenuto, in Eros e civiltà (1955) che, con il cosiddetto atteggiamento culturalista, la psicoanalisi freudiana verrebbe ridotta ad una semplice ideologia, o meglio, ad una “filosofia dell’anima”. D’altra parte le idee della Scuola culturalista non dimostrarono di poter incidere, significativamente, sull’evolversi delle concrete problematiche legate alla tecnica psicoanalitica, a cavallo degli anni cinquanta.

In quel periodo, l’esercizio della psicoanalisi si andò, per più motivi, progressivamente modificando. Da essa, necessariamente, si differenziarono delle tecniche psicoterapeutiche e, di conseguenza, col tempo, si pose sempre più il problema di specificare le rispettive identità della psicoanalisi e delle psicoterapie. È una questione tuttora aperta (Cfr. tra gli altri: Gill, 1984; Migone, 1991, 1995, 2001; Wallerstein, 1969, 1989); essa trae grande giovamento dall’utilizzo di una prospettiva storica, oltre che teorica.

La cosiddetta “psicoterapia psicoanalitica” si diffuse negli Stati Uniti, attorno agli anni cinquanta, proprio mentre la psicoanalisi si andava ampiamente affermando, in ambito sociale. In quel periodo, come pratica conseguenza della forte diffusione della psicoanalisi, sempre più analisti, soprattutto negli USA, si trovarono a trattare casi difficili, confrontandosi con concreti problemi clinici. Ciò favoriva quel filone di riflessione, precedentemente accennato, che individuava nella psicoanalisi, prevalentemente, una tecnica terapeutica.

Nacque la necessità di modificare il setting analitico classico per venire incontro ai bisogni di quei pazienti che non riuscivano a tollerarlo. Non a caso, proprio in quegli anni si andava massimamente sviluppando la Psicologia dell’Io (Hartmann, 1937, 1964; Hartmann, Kris & Lowenstein, 1964; Blanck & Blanck, 1974), per la quale era importante, a livello teorico e tecnico, il ruolo dell’Io, o meglio delle difese del paziente (Freud A., 1936). Si tendeva, in quel periodo, a spostare la tecnica psicoanalitica da una pratica eminentemente interpretativa verso una “analisi delle difese”. Questo orientamento doveva fronteggiare una certa tradizione psicoanalitica che individuava uno stretto legame tra setting classico e metodo psicoanalitico. Tradizionalmente, infatti, la psicoanalisi veniva collegata agli aspetti formali e determinati del setting; in particolare: il lettino, le sedute frequenti, il pagamento, la costanza dell’ambiente, l’astinenza e la neutralità dell’analista (Macalpine 1950). Per molto tempo, questi aspetti furono identificati, anche ritualmente, da una parte del movimento psicoanalitico, con la nozione stessa di psicoanalisi. Però, di fronte alle difficoltà cliniche ed alla necessità di modificare il setting per entrare in rapporto con i pazienti, si andava sviluppando un sostanziale dibattito, su quali potessero essere i “criteri intrinseci” capaci di definire il campo specifico della psicoanalisi, differenziandola dalla psicoterapia. È un dibattito poi proseguito per decenni che, tuttora, coinvolge diversi studiosi (Galatariotou, 2000; Kenberg, 2004; Green, Kernberg & Migone, 2009). È in tale contesto teorico e clinico che, negli anni cinquanta, apparve il contributo di Kurt Eissler.

I parametri di Eissler

Il lavoro di Eissler (1953) è, storicamente, importante poiché, dal punto di vista della psicoanalisi classica, vuole proporre gli eventuali motivi per cui potrebbe essere modificata la tecnica psicoanalitica standard, pur salvaguardando la definizione di “psicoanalisi” e non di “psicoterapia”. Eissler teorizzò, in una prospettiva di ricerca, un modello di tecnica di base.

È un modello ideale, con poco riscontro nella clinica corrente, in cui si suppone la presenza di un paziente dotato di un Io intatto, che consenta all’analista di limitare i suoi interventi all’interpretazione verbale, senza che le regole basilari del setting vengano modificate. Nella fase storica di sviluppo della Psicologia dell’Io, la dimensione psicologica del paziente assumeva particolare rilevanza.

Eissler coniò il termine parametro di tecnica per designare una modificazione della tecnica psicoanalitica classica, resa necessaria dalla situazione deficitaria dell’Io del paziente. Queste modificazioni possono includere numerosi tipi di intervento, che si diversificano dall’interpretazione. Per esempio: la rassicurazione, il consiglio, il ritorno alla posizione vis-à-vis, la prescrizione di un comportamento, lo stabilire di autorità la data del termine della analisi per mobilizzare eventuali resistenze, come fece Freud (1914) con l’Uomo dei lupi, e così via.  Secondo Eissler, tuttavia e questo è il suo principale contributo, una tecnica terapeutica può sempre essere definita “psicoanalisi” se l’introduzione di un parametro è basata sui seguenti quattro criteri:

1) Un parametro deve essere introdotto soltanto quando è dimostrato che la tecnica del modello di base non è sufficiente.

2) Il parametro non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile.

3) Un parametro deve essere utilizzato soltanto quando esso porta, alla fine, alla propria autoeliminazione.

4) Le sue ripercussioni sul transfert non devono mai essere tali che non possa essere più abolito dell’interpretazione.

Così Eissler giustificò razionalmente le differenze tra psicoanalisi e psicoterapie. In sostanza, se si introduce un parametro, esso deve poi essere eliminato. Altrimenti, se il parametro non fosse eliminato, alcune resistenze potrebbero collegarsi all’introduzione del parametro stesso e non essere mai analizzate.

Dal punto di vista della psicoanalisi, secondo Eissler, si potrebbe intendere, per “psicoterapia”, una terapia basata su parametri non analizzati e non eliminati, che vengono introdotti in modo fisso nel setting. Questa terapia potrebbe avere un effetto benefico sul paziente; ad esempio lo rassicurerebbe, ma non gli permetterebbe di introiettare alcune funzioni, né di acquisire l’insight sulle ragioni del suo benessere, ottenuto anche tramite il parametro. Quindi, non opererebbe quelle modificazioni strutturali dell’Io che sono l’obiettivo della psicoanalisi.

Eissler collegò le sue proposte al setting classico della psicoanalisi.

Alcuni studiosi contemporanei (Migone, 2000) ritengono che questa proposta sia ancora valida, pur essendo convinti che, attualmente, il setting classico non caratterizzi, in sé, la psicoanalisi. Inoltre, si è proposto di estendere questo ragionamento alle diverse situazioni terapeutiche, prescindendo dal tipo di setting usato, ortodosso od eterodosso. In più, si è sostenuta l’importanza della successiva elaborazione teorica compiuta da Merton Gill nel 1984, che non risulterebbe in contrasto con il ragionamento di Eissler.

I criteri di Gill

Nel 1954, Gill elencò quattro criteri intrinseci della psicoanalisi; ovvero:

1) Centralità dell’analisi del transfert (nella psicoterapia, come è noto, il transfert non viene, necessariamente, analizzato, ma utilizzato e manipolato).

2) Neutralità tecnica dell’analista.

3) Induzione di una “nevrosi da transfert regressiva”.

4) Risoluzione di questa nevrosi transferale regressiva solo, o prevalentemente, con lo strumento dell’interpretazione. 

Con ciò Gill si inseriva pienamente in quello che Wallerstein (1989) avrebbe definito Il periodo del consenso psicoanalitico, che va dagli anni ’40 ai ‘70. La concezione della psicoanalisi si manteneva, in quel contesto, all’interno dei canoni classici.

Tuttavia, già durante un Simposio del 1979, Gill compì una decisa revisione, modificando le sue precedenti proposte e divenendo, a buon diritto, assieme ad altri, un fondamentale esponente di quello che Wallerstain (1989) avrebbe, invece, definito Il periodo del consenso frammentato, che data dagli anni ’70 ai giorni nostri. In questa revisione (Gill, 1984), egli modifica i quattro criteri intrinseci in modo tale che possano cambiare anche i cosiddetti criteri estrinseci, ovvero: a) frequenza delle sedute, b) uso del lettino; c) selezione dei pazienti. La revisione consiste, essenzialmente, nel considerare centrale l’analisi del transfert con il paziente, in qualunque setting o in qualunque situazione clinica ci si trovi. Anche se non è, qui, possibile riproporre tutti i passaggi della revisione teorica di Gill, va sottolineato che, in questa riconcettualizzazione “relativistica”, la nozione di transfert viene allargata fin quasi a divenire sinonimo di “relazione”. Come risultato, si vorrebbe rendere applicabile la psicoanalisi in situazioni più vaste rispetto al setting classico; ad esempio nel servizio pubblico, con pazienti gravi, con frequenza monosettimanale, o proprio nelle terapie brevi. L’importante è che l’analista, nelle diverse situazioni, si impegni ad approfondire la “analisi del transfert”, che è l’unico fattore “intrinseco” conservato da Gill. È il transfert stesso, in questa prospettiva, che determina il modo in cui verrà vissuto il setting, qualunque esso sia. In questa logica, quindi, si vuole mantenere univoca e coerente la parte teorica della psicoanalisi che attiene ai fenomeni transferali ed ai meccanismi dell’inconscio, mentre si considera possibile declinare questa teoria in diverse tecniche. La differenza tra psicoanalisi e psicoterapie risulterebbe, in sostanza, collegata all’uso che il terapeuta fa della relazione transferale.

La ricerca di Wallerstein

In una riflessione dedicata al difficile rapporto fra psicoanalisi e psicoterapie, è opportuno approfondire il lavoro scientifico di Robert Wallerstein, esponente di vertice della Associazione Psicoanalitica Internazionale.

Il contributo di Wallerstein si pone all’interno di un complesso quadro storico dove, in una prospettiva comune a più autori, la ricerca scientifica, in psicoterapia, viene suddivisa in quattro fasi fondamentali (Wallerstein, 1989, 2005, 2005a).

– Una fase iniziale, a partire dai pionieristici studi di Abraham e Fenichel a Berlino, negli anni ’20 e ’30, facendo riferimento anche alle ricerche di Rogers, negli USA, negli anni ’40 (Cfr. Migone 1995, cap. 4, nuova ed. 2010).

– Una seconda fase che si sviluppa tra gli anni ’50 e ’70, rivolta soprattutto ad analizzare i risultati della psicoanalisi. Questi studi, anche se riescono a dimostrare che il trattamento psicoanalitico produce effettivamente dei cambiamenti, non sono in grado di documentare la stabilità o instabilità del risultato ottenuto e le caratteristiche delle modificazioni strutturali.

– In un terzo momento, le ricerche si pongono il problema della stabilità del cambiamento, valutando il paziente prima e dopo il trattamento, sia rispetto ai casi singoli, sia riguardo ai gruppi.

In questo contesto si colloca la cosiddetta ricerca di Wallerstein, ovvero lo Psychotherapy Research Project (PRP) della Menninger Foundation, considerato il più completo studio formalizzato sulla psicoanalisi; il solo studio di outcome che copre quasi l’intero arco di vita dei pazienti.

– Infine, al quarto punto, vi sono le ricerche di “ultima generazione” che cercano di rendere evidenti e quantificabili diversi aspetti del processo terapeutico, concentrando l’attenzione non tanto sui risultati della terapia, quanto sul modo in cui essa si sviluppa, nei suoi successivi passaggi. A questa categoria appartiene lo studio di Luborsky (1990), che ha avuto un certo riscontro in ambito psicoanalitico.

La nota ricerca della Menninger Foundation, lo PRP, che iniziò nel 1954 e terminò nel 1972, fu seguita da Wallerstein per tutta la durata. Essa si basava sull’ipotesi che le allora denominate tecniche di trattamento espressivo, così anche era definita la psicoanalisi, producessero cambiamenti caratterizzati da maggiore stabilità rispetto alle cosiddette tecniche supportive, come alcune psicoterapie. Questa distinzione concettuale, così espressa, era corrente negli anni ’50. Si cercava, in sostanza, di individuare i cambiamenti di tipo strutturale nella evoluzione clinica del paziente. Riferisce Wallerstein che: “I risultati della ricerca…deposero per l’esistenza di un’area di sovrapposizione fra la psicoanalisi e la psicoterapia psicoanalitica” (Wallerstein, 1989, 149). La distinzione fra psicoanalisi e psicoterapia si rivelò, in linea di principio, difficoltosa. Come è stato, da più parti, approfondito in seguito, (Dazzi, 2006; Migone, 2006; Ortu 2007) la psicoanalisi e le diverse psicoterapie psicoanalitiche possono ottenere risultati simili. Inoltre, anche la psicoanalisi conterrebbe molti più elementi supportivi di quanto previsto. Nel complesso, da una parte la ricerca permetteva di sostenere l’efficacia del trattamento psicoanalitico, ma dall’altra lasciava aperto il problema di quali fattori determinassero il cambiamento.

E’ interessante constatare come, nell’ambito di questa ricerca, si iniziò a sentire la necessità di inserire la diagnosi del paziente all’interno del contesto dei suoi reali bisogni. Come ha osservato Lang (1993, 21): «L’importanza attribuita alla situazione esistenziale del paziente rimanda alla necessità di strutturare ricerche che tengano conto anche di quella che la metodologia definisce “validità ecologica”, ossia la rispondenza tra impianto sperimentale ed ambiente, dal quale vengono tratti i dati».

Inevitabilmente, all’interno di un progetto di tale durata temporale, si evidenziavano, per necessità clinica e riscontri oggettivi, quelle relazioni tra la psiche e la situazione esterna che una parte della psicologia e della psicoanalisi contemporanea ritiene imprescindibili.

La storia dei contributi che si sono illustrati, con i lavori di Eissler, Gill e Wallerstein, tutti collocati nell’area statunitense, è fondamentale per comprendere la natura del dibattito contemporaneo sulla psicoanalisi e sulla psicoterapia. Emergono due considerazioni.

In primo luogo, sul piano della tecnica terapeutica, si denuncia la difficoltà nel distinguere, nettamente, la psicoanalisi dalla psicoterapia. Inoltre, una parte degli studi contemporanei iniziano a rivalutare il rapporto tra soggetto e ambiente.

Peraltro, in ambito strettamente psicologico, prescindendo dalla configurazione psicoanalitica o psicoterapeutica, una buona fetta della psicologia contemporanea, negli USA, guarda, con grande attenzione, alle determinanti culturali nella formazione dell’individuo (Rogoff, 1990, 2003), sia rispetto alla cosiddetta normalità, sia riguardo alla psicopatologia.

Inoltre, le vicende storiche interne al dibattito tra psicoanalisi e psicoterapie, fin qui illustrate, ben espongono i percorsi tramite cui, soprattutto a partire degli anni cinquanta, si è andata costruendo la teoria e la pratica della psicoterapia psicoanalitica breve. Come si è scritto essa nacque, come altre modalità terapeutiche, per fronteggiare le concrete necessità proposte dalle caratteristiche dei pazienti e per migliorare l’efficacia dell’intervento clinico. Ciò, si constata, non corrispondeva e non corrisponde, nella sostanza, ad una qualche critica di principio, rispetto al corpo dei concetti psicoanalitici.

Sulle differenze tra psicoanalisi e psicoterapie

Il primo obiettivo di riflessione è valutare che cos’ è, o meglio che cosa è diventata la psicoanalisi, nel corso di questi dibattiti connessi all’elaborazione della tecnica d’intervento psicoanalitico.

Come si è illustrato, la psicoanalisi, nella sua iniziale proposta è stata una teoria potente (3), capace di spiegare tanti fenomeni, sia della psiche umana, sia del mondo storico e culturale. Non solo una teoria della mente, ma un paradigma esplicativo che ha coinvolto, all’interno della suo stesso progetto scientifico, la dimensione del contesto sociale in cui il soggetto vive, in tutte le possibili declinazioni offerte dalla presenza e dall’attività umana. Il dibattito contemporaneo sulla psicoanalisi, comprese le controversie sulle differenze che la distinguono dalle psicoterapie, non corrisponde alla vastità e alla profondità di questa iniziale proposta freudiana.

Tale dibattito coincide, piuttosto, con una versione parziale, o meglio con il segmento relativo alla tecnica terapeutica, dove si trascura il quadro complessivo del pensiero psicoanalitico e delle sue ricche potenzialità. Questa prospettiva amputata, da sola, non potrà mai dare una ragionevole e credibile indicazione delle plausibili differenze tra psicoanalisi e psicoterapie. Anche per poter sostenere che la psicoanalisi è caratterizzata dall’assetto interno dell’analista, bisogna precisare che questo assetto dovrebbe proporsi di contenere la complessità umana, psichica e storica del paziente e dell’analista stesso, nello specifico contesto del setting mentale. Altrimenti non esistono garanzie concettuali di una qualche effettiva diversità rispetto ad una psicoterapia che mira, come fondamentale e giustificato obiettivo, alla cura di uno stato di sofferenza.

Evitiamo, in questo ristretto ambito di entrare nel merito dei modelli, o prototipi di normalità, da cui l’individuo in cura si è allontanato. Ricordiamo solo che, mentre da un lato tali modelli sono individuali, cioè riguardano un plausibile assetto interno mentale del soggetto, dall’altro, rispecchiano un ordine di pensiero e di azione che, ancora una volta, viene considerato accettabile nell’ambito dell’intersoggettività e all’interno di un più vasto e condiviso contesto ambientale.

Rispetto a qualunque forma di intervento terapeutico psicoanalitico, o a qualsivoglia psicoterapia, ci possiamo rendere conto dei metodi e della specifica prassi che viene usata, solo in riferimento ad una teoria psicologica da cui essa derivi. Qualunque intervento terapeutico si presenta come la parte applicativa di una teoria psicologica, così come la tecnica, in generale, è l’aspetto applicativo della scienza. È solo su questa base che ci si può cominciare a chiedere cosa la psicoanalisi non è (Cfr. Green et al., 2009, 215). Si deve però constatare che la tecnica, e così avviene per la psicoterapia, può avere uno sviluppo autonomo, cioè può distanziarsi dalla teoria dalla quale origina. Questo è quel che è accaduto per tutta la seconda metà del novecento alla psicoanalisi, nel rapporto fra tecnica terapeutica e teoria. Ciò è avvenuto non perché la teoria risultasse, sostanzialmente, insufficiente rispetto alle innovazioni della tecnica, bensì perché una larga parte della primitiva proposta teorica era stata, progressivamente, rimossa e dimenticata. Sui motivi storici di questa rimozione si potrebbe aprire un invitante capitolo di riflessione. Paradossalmente, tale indagine, dove predominano i temi di natura culturale, potrebbe essere svolta solo con gli strumenti offerti dalla psicoanalisi stessa. Ma non è l’argomento di questo lavoro.

Freud fu sempre attento a non scivolare nella gabbia della esclusiva clinicizzazione della psicoanalisi. L’intera sua opera testimonia la precisa collocazione del pensiero psicoanalitico in una dimensione storica e sociale (4).

In sostanza, se la psicoanalisi è una teoria complessiva dell’essere umano, nata come tale, fare psicoanalisi, ancora oggi, dovrebbe comportare, necessariamente, rifarsi a tale disciplina nella sua complessità. Altrimenti si opta, lecitamente per una proposta psicoterapeutica. La differenza non è nella durata dell’intervento, nella posizione del lettino, o in altri aspetti formali, ma nella capacità dell’analista di introiettare e tenere costantemente presente la complessità teorica e storica del paziente che ha in cura. La concezione psicoanalitica della persona non può essere mirata, semplicemente, al cervello di una persona perché, parafrasando Luria, un cervello diventa umano, solo quando è immesso nella storia umana.

La psicoterapia psicoanalitica breve

Sul piano storico, è interessante ricordare che tutte le prime analisi di Freud erano abbastanza brevi. Quella dell’uomo dei topi durò undici mesi (Freud, 1909) e anche le sue analisi didattiche andavano da pochi mesi ad un anno, al massimo. Il direttore d’orchestra Bruno Walter, affetto da una paralisi isterica al braccio fu curato in sole sei sedute. Il compositore Gustav Mahler, sofferente di disturbi sessuali, ebbe un solo incontro con Freud, della durata di quattro ore. Inoltre Freud tendeva ad agire interattivamente con i suoi pazienti e a dare, a volte, indicazioni o consigli, praticando una tecnica che assomiglia molto a quella dei contemporanei terapeuti brevi. In seguito, la durata del trattamento si allungò notevolmente, poiché divenivano più ambiziosi gli obiettivi di Freud, spostandosi dai sintomi nevrotici alla patologia complessiva del carattere. Dopo Freud, la storia della psicoterapia breve è riassumibile in tre passaggi fondamentali, collegati agli autori che hanno dato contributi significativi in questo campo: Ferenczi e Rank, Alexander e French e i moderni terapeuti brevi (Cfr. Migone, 1995, cap. 3). Ferenczi (1920), dichiaratamente per primo tentò di accorciare la durata del trattamento psicoanalitico, con una tecnica da lui definita “attiva”. Egli si ricollegava allo stesso Freud, quando affermava che il terapeuta, a volte, deve adottare atteggiamenti più attivi per aiutare il paziente a vincere la sua ansia. Per esempio, nel caso dell’Uomo dei lupi Freud stabilì una data per la fine della terapia, allo scopo di mobilitare i conflitti inconsci del paziente. Anche Rank (1936) stabiliva in anticipo la data di interruzione della terapia, per far emergere la possibilità di analizzare l’angoscia di separazione dall’analista.

Alexander e French (1946), insieme ad altri, che avrebbero costituito la cosiddetta “Scuola di Chicago”, cercarono anch’essi una tecnica per accorciare la durata del trattamento psicoanalitico. Furono considerati dei dissidenti, rispetto all’ortodossia, come era avvenuto ai loro illustri predecessori: Ferenczi e Rank.

L’ultimo capitolo di questa vicenda è rappresentato dai contributi dei contemporanei terapeuti brevi. In questo campo esistono più scuole ed influenze, con vari interventi. Le diverse posizioni, “radicale” o “conservatrice” e i vari modelli interni al dibattito sulle terapie brevi verranno trattati in altra parte di questo volume. Qui interessa osservare che la problematica teorica attinente le terapie brevi è entrata nel dibattito storico sulla tecnica psicoanalitica, evocando il tema generale dell’identità della psicoanalisi. Nell’intenzione dei propugnatori, le terapie brevi ad orientamento psicoanalitico non hanno una differenza teorica qualitativa con la psicoanalisi. Esse costituiscono una applicazione dei principi psicoanalitici a varie situazioni cliniche ed istituzionali dove, per motivi di concreta opportunità tecnica e pratica, si decide di mantenere la durata del trattamento entro limiti precisi. Del resto, come si è già scritto, Eissler (1953) sostenne la legittimità dell’introduzione di modifiche alla tecnica di base; i cosiddetti “parametri”: anche se il parametro dovrebbe essere interpretato ed eliminato prima della fine della terapia e non introdotto, a priori, come componente fissa del setting.

D’altra parte, anche seguendo la revisione teorica proposta da Gill (1984), la psicoanalisi può venire applicata ai setting più diversi e tende a sovrapporsi alla “psicoterapia psicoanalitica”. Gill (1984, cap. 3, 52), spezzando una lancia in favore delle terapie brevi, sostenne, rispetto all’idea che l’analisi debba essere “senza tempo”, che è errata una concezione della psicoanalisi del tipo “tutto o niente”. Si può usare la tecnica psicoanalitica anche se l’analisi non risulta “completa” e poiché i benefici si accumulano progressivamente, l’analisi può essere interrotta in vari momenti e non è detto che si perda quello che si è conquistato.

Seguendo questo filone di pensiero si accetta che il bagaglio concettuale della psicoanalisi faccia parte integrante della proposta teorica e clinica delle psicoterapie brevi ad orientamento analitico.

Proprio per questo, però, alcuni problemi che appartengono alla psicoanalisi e che si sono evidenziati nell’ambito di questo lavoro possono rientrare all’interno del dibattito contemporaneo riguardante le terapie brevi.

Anche in campo, strettamente, psicoterapeutico si pone il problema dell’integrità e della complessità del soggetto umano. Sebbene sia stata la psicoanalisi che, storicamente, ha perso per strada la dimensione sociale e culturale dell’individuo, per orientarsi su una posizione prevalentemente psicoterapeutica e tecnica, ove questo recupero della complessità sociale iniziasse a verificarsi, le psicoterapie non ne potrebbero rimanere estranee. L’alternativa sarebbe, come si vuole di illustrare nelle righe che seguono, un rifugiarsi nella “cronaca”, rifiutando la “storia”.

Una riflessione

La psicoanalisi, proprio perché, ha l’obiettivo della cura e vuole disvelare l’inconscio ed il rimosso, non può evitare di appellarsi al divenire storico e sociale; ovvero ad una concezione storicamente fondata della persona. Infatti il rimosso diviene tale, prima di tutto, in seguito ai divieti che provengono dalla dimensione ambientale e culturale in cui l’individuo è collocato.

Volendo utilizzare una metafora, si può sostenere che la differenza esistente tra psicoterapia e psicoanalisi è la stessa che c’è tra cronaca e storia. La cronaca riporta un fatto a se stante, la storia lo contestualizza. Quest’ultima vede il prima e il possibile dopo, cerca di inserire quel fatto in una area concettuale e in un plausibile, appunto, “quadro storico”. Per poter riflettere sulla storia, nella sua completezza, è necessario trascendere il fatto e fare continuo riferimento al livello superiore dei concetti e della teoria. Di ciò non c’è bisogno, riguardo alla cronaca che, anzi, deve rimanere immersa nel fatto.

Proprio per quest’ordine di considerazioni s’impose il grande spessore, il valore culturale, oltre che scientifico, di Freud e di tutta la prima generazione di psicoanalisti.

Mantenendo la precedente metafora, la differenza tra uno psicoterapeuta ed uno psicoanalista potrebbe essere paragonabile a quella che esiste tra un giornalista, che riporta una cronaca ed uno storico che elabora un quadro multidisciplinare e complesso. Nella dimensione storica devono essere inserite le vicende del paziente dai più diversi punti di vista, ambientali e temporali. Tra essi, la cronaca è, appunto, uno dei dettagli; attenzione, però, è un dettaglio fondamentale.

La iniziale proposta psicoanalitica, non solo negli sviluppi avvenuti in Russia, si orientava in questa direzione. Le tecniche d’intervento, definite psicoterapie, apparvero in seguito. Quest’ultime, cronologicamente, dipesero e, concettualmente, dipendono largamente dalla psicoanalisi.

Va anche specificato che non si deve confondere la dimensione storica del paziente, socialmente considerata, con la sua biografia. Recuperare la “storia”, in senso biografico, del paziente è una operazione certamente più complessa del solo trattamento del sintomo, ma non corrisponde, concettualmente, alla storicizzazione del soggetto.

Utilizzando una diversa metafora, potremmo paragonare l’attenzione per la biografia della persona, in ambito terapeutico, al lavoro del muratore e la valutazione storica all’opera dell’architetto. Il muratore agisce, costruisce e restaura; L’architetto deve, anche, avere un piano strategico che inserisca ciò che sta elaborando in un ambiente umano concreto e considerato globalmente. Un piano che tenga conto della storia del luogo e della sua geografia; anche se, per quel che ci compete, stiamo parlando di una geografia dell’anima.

Le antiche corporazioni medioevali dei costruttori non consentivano a nessun membro di divenire architetto, se non era stato e non era in grado di essere muratore.

Il particolare e completo lavoro di uno psicoanalista richiede questa capacità strategica, di spostarsi dall’elemento del sintomo alla visione complessiva della personalità, inserita nel suo contesto sociale e temporale, geografico e sociale. Ciò deve avvenire in un attimo o, con maggior precisione, sincronicamente. Consiste in questo la vera difficoltà che lo psicoanalista deve affrontare, nel realizzare il suo proprio setting mentale, in cui accogliere il paziente. Tale procedimento, ovvero la costruzione dell’edificio mentale del setting interno dell’analista, ove vengano osservati i criteri sopra illustrati, è plausibilmente uno dei rari momenti in cui l’antica divisione ottocentesca tra scienze della natura e scienze dello spirito (Cfr. Angelini 1988, 96), che ancora pesa sul pensiero contemporaneo, tende ad essere superata.

Risulta anche chiaro come, nel proliferare contemporaneo di metodi psicoterapeutici e proposte varie, non sia l’etichetta o la denominazione a garantire la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia. Una parte della psicoanalisi contemporanea, anche istituzionale, si è tecnicizzata, autolimitandosi e scivolando in direzione, proprio, della psicoterapia. Possono, invece, esistere approcci psicoterapeutici che, al di là della denominazione, abbiano la capacità di accogliere il sopradescritto punto di vista complessivo e profondo, necessario per una effettiva prospettiva psicoanalitica. Tecnicamente, resta anche valida la possibilità che un setting classico, ove sia possibile realizzarlo, offra delle maggiori opportunità di intervento e di contatto mentale tra paziente e terapeuta. Ma le possibilità contemporanee di realizzare un setting classico sono limitate; al punto che, per certi aspetti, un setting classico è un setting ideale (5). Anche Green ha osservato come “il modello della cura psicoanalitica è un modello ideale, è l’ideale al quale tende lo psicoanalista” (Green et al., 2009, 226).

Infine, è opportuno chiedersi se la ciclica tendenza a studiare la psiche umana in forma astratta e metastorica, che inesorabilmente riemerge, non sia una delle ultime ancore dell’antropocentrismo (Cfr. Mecacci, 1984, 166). Un antropocentrismo anch’esso frutto di una spinta di origine culturale. Un effetto delle due rivoluzioni, copernicana e darwiniana, che hanno collocato l’umanità nella catena dell’evoluzione del mondo animale, sul pianeta Terra, in un punto qualunque del cosmo. Allora, fatta salva ogni possibile dimensione spirituale, astrarsi, studiare oggettivamente la psiche ed i suoi disturbi come se fossero una eccezione nell’universo potrebbe essere un modo per recuperare la centralità dell’individuo nel mondo. Un modo, apparentemente, scientifico e concreto per riproporre l’antico e originale peccato di orgoglio.

Ciò, sul piano metodologico, corrisponderebbe anche al rinnovarsi di quella classica scissione, tipica della psichiatria e della psicologia “meccaniciste” ottocentesche, che separavano la psiche studiata, o curata, dalla propria psiche. Questa separazione fu, appunto superata dalla rivoluzione del pensiero psicoanalitico.

In conclusione è, generalmente, auspicabile che chiunque si ponga nella prospettiva di una “cura psicologica” possa recuperare la dimensione globale e sociale del soggetto e della propria relazione con esso, utilizzando pienamente l’intero patrimonio della psicoanalisi ed evitando di considerare la psiche umana come un congegno metastorico e astratto.

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(1) Nell’ambito di uno storico e importante congresso internazionale sull’inconscio, tenutosi a Tbilisi, in Georgia, nel 1978, cui parteciparono note personalità scientifiche occidentali e dove lo stesso Cesare Musatti inviò una relazione, la studiosa statunitense N. Rollins enfatizzò, correttamente, lo stretto legame tra il Super Io ed i fattori sociali. Ella voleva contrapporsi agli psicologi sovietici che, nella seconda metà del secolo scorso, contestavano a Freud una sopravalutazione dei fenomeni pulsionali, a scapito dell’influenza ambientale. La Rollins sostenne che, nella prospettiva freudiana, essendo il Super Io, principalmente, un effetto dell’educazione ricevuta dai genitori, si potrebbe addirittura affermare che, in un diverso contesto, la psicoanalisi finisca per sopravalutare il ruolo dei fattori sociali.

(2) Tra le idee più interessanti, nel fiorire della psicoanalisi russa, valgano come esempi le concezioni di Rejsner (1925) e Zalkind (1927) che, da differenti prospettive e con qualche accento anche critico, paragonarono il processo psichico che porta alla rimozione ed ai divieti inconsci alla teoria filosofica del rispecchiamento. Contemporaneamente, B.D. Fridman (1925), approfondendo il meccanismo psicoanalitico della razionalizzazione, tese a dimostrare come le caratteristiche intrinseche dell’inconscio e la formazione del Super Io siano profondamente collegati al contesto storico e culturale. Tutti costoro erano stati molto colpiti dal lavoro di Freud del 1921, Psicologia delle masse e analisi dell’Io.

Furono pochissimi gli esponenti occidentali che, in quegli anni, per una personale passione, entrarono in contatto con le idee russe e le riproposero in occidente. Va ricordata la vicenda di W.Reich, che avanzò interessanti contributi clinici, influenzati dal pensiero russo, in Analisi del carattere (1933), prima di essere espulso, nel 1934, dall’IPA, perché considerato un pericoloso estremista politico.

(3) Non è un caso che i più forti attacchi metodologici e concettuali alla psicoanalisi siano iniziati verso la fine del secolo scorso, proprio quando, in ambito filosofico e scientifico, iniziava la moda del cosiddetto “Pensiero debole”.

(4) Rispetto alle opere di Freud, anche prescindendo dai lavori re­lativi al linguaggio e all’arte, corposi e numerosi, che andrebbero collocati tra gli studi attinenti, appunto, alla dimensione culturale ed artistica, si può far risalire l’interessamento freudiano per il tema storico e sociale al 1908, con il suo articolo La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno.

E’ importante notare che l’attenzione di Freud si volge, in primo luogo, verso fenomeni a lui contemporanei. E’ poi intorno al 1912 che si precisa questa inclinazione in brevi articoli sui rapporti tra folclore e sogni. In seguito è chiaro che, con Totem e tabù,il pensiero di Freud acquista una densità mai raggiunta in questo campo. Di nuovo il pendolo oscilla verso le tragiche circostanze che dominano l’attualità, nell’anno 1915, con: Con­siderazioni attuali sulla guerra e la morte. Sarà il conflitto armato a fornirgli l’occasione di scrivere sulle nevrosi di guerra. Poi si mostrerà un Freud dotato di un penetrante senso sociale e persino di doni profetici, poiché alcuni riconoscono che Psicologia delle masse e ana­lisi dell’Io prefigura il nazionalsocialismo, fin dal 1921.

Una pausa di sei anni separa questo saggio da L’avvenire  di una illusione (1927), seguito da Il disagio della civiltà (1929), in cui si alternano la spe­ranza e l’angoscia per il futuro. Ritorna, poi, la minaccia della distrutti­vità con Perché la guerra? (1932);ma qui l’interesse non è spontaneo, si tratta diuna risposta a Einstein che, avendo sicuramente letto Il disagio, interloquì con Freud a nome della Società delle Nazioni. Infine, nel 1938, conclude con L’uomo Mosè e la religione monoteistica, che può essere interpretato come parte del suo testamento spirituale.

Nel saggio Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), due processi paralleli spiegano il sorgere del senti­mento sociale: da una parte, l’inibizione delle pulsioni sessuali, dall’altra l’identificazione. Le radi­ci libidiche del sentimento sociale sono, in particolare, oggetto di anali­si in due opere già citate: L’avvenire di una illusione (1927) e Il disagio del­la civiltà (1929). L’immagine dell’uomo che Freud propone, non è cer­to ottimista. Appare, piuttosto, conforme al principio di Thomas Hobbes: “Homo homini lupus”. Il rispetto per i propri simili richiesto dalla società urta contro la componente di ostilità reciproca degli individui. Il mezzo più ef­ficace per inibire gli impulsi aggressivi è dato proprio dalla loro interioniz­zazione in una istanza che rappresenti la coscienza morale: il cosiddetto Super-Io. Esso opera in direzione della rinuncia pulsionale, creando nel­l’Io un senso di colpa e un bisogno di punizione per gli impulsi ostili ed ag­gressivi. Freud vede una conferma di quanto sia radicato il senso di colpa, in ciò che le varie religioni hanno chiamato peccato e nella necessità da esse predicata del pentimento e dell’espiazione. La colpa è alimentata dall’energia dei medesimi impulsi antisociali che vengono inibiti.

Se il modello di felicità è dato dal soddisfacimento delle pulsioni e dalla conformità alle proprie disposizioni naturali, allora per Freud la felicità non è un valore culturale. Il prezzo si concretizza nella insoddisfazione e nella nevrosi.

(5) Prescindendo dai problemi sociali che ostacolano la realizzazione di un setting psicoanalitico ideale, va osservato che l’alta frequenza settimanale delle sedute, auspicata dalla psicoanalisi, può rappresentare una difficoltà ed un peso per il terapeuta stesso. Nella prospettiva seguita in questo lavoro, a parte i vari problemi tecnici che potrebbero essere implicati, è possibile che questa fatica si determini per la mancata “storicizzazione” del paziente. Può mancare cioè, nell’analista, un setting mentale strategico e storico relativo al paziente ed alla relazione. L’analista potrebbe perdere la “giusta distanza” e il confronto tra i due soggetti dell’analisi si sposterebbe al livello di cronaca, o meglio ai “ferri corti”.

In realtà, trattandosi di una questione psichica, questa situazione, spesso segnalata nella mente del terapeuta dalla sensazione di “non saper che dire” al paziente, può verificarsi anche con una bassa frequenza di sedute.

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