
Gran Torino – 2013
Eidos cinema e psyche, 28
di Alberto Angelini
Con particolare riferimento alla tragedia, Aristotele sostiene, nella Poetica, che nel passaggio dalla prima alla seconda parte dell’azione, debba verificarsi una trasformazione capace di provocare la sorpresa. Questa trasformazione non può essere arbitraria o casuale, ma deve costituire un riconoscibile punto di svolta. Più è imprevedibile la trasformazione, attraverso cui è effettuato il passaggio dalla prima alla seconda parte della narrazione, più potente è il risultante pathos. L’imprevisto è auspicabile, anzi necessario.
Da questo punto di vista, nel film Gran Torino, Clint Eastwood realizza un “piccolo prodigio”. Egli è il personaggio protagonista Walt Kowalski, reduce della guerra di Corea e operaio della Ford in pensione, che vede il suo quartiere di Detroit spopolarsi di bianchi americani per lasciare il posto a ispanici e a un gruppo di invadenti “musi gialli”. Si tratta degli “Hmong”, una popolazione asiatica costretta ad emigrare in massa negli Stati Uniti, per l’appoggio dato agli Americani nella guerra del Vietnam. La rabbia di Kowalski si rivolge anche verso i membri della sua famiglia. Dai due figli, Mitch e Steve, lo allontanano scelte di vita e gusti automobilistici; uno di loro commercia auto giapponesi, peccato più che mortale per un ex dipendente Ford. Dei nipoti vari disprezza, praticamente, ogni cosa: dall’abbigliamento all’indolenza.
Anche con autoironia, Eastwood mette in scena Kowalski nel meno compiaciuto dei modi. Un vecchio ringhioso e urticante, capace di prendere il fucile per allontanare chi osa invadere la sua proprietà privata e preoccupato solo di due cose: avere una scorta di birra fresca da bere in solitudine nella sua veranda e ammirare la sua Gran Torino Ford del 72, che ogni tanto tira fuori dal garage e lucida con maniacale pazienza. Quest’auto da esposizione, che non usa e protegge
gelosamente, fa da controparte rispetto a coloro che sembrano, a lui, rappresentare il degrado di un mondo che non accetta. Essa è simbolo della sua reale esistenza, assieme alle sigarette, alle lattine di birra, al piccolo prato antistante casa e alla tosse che segnala il progredire di una grave tubercolosi.
Questa severa routine viene interrotta da due suoi giovani vicini asiatici: Sue e Thao, con cui fiorisce un forte rapporto, soprattutto incoraggiato dall’iniziativa affettuosa della ragazza. In questa reciproca relazione si sviluppa, per Kowalski, un progressivo processo di apprendimento. Nei confronti del giovane Thao e delle sue incertezze nel crescere, l’irritabile Walt è chiamato a svolgere quel ruolo paterno che è consapevole di aver trascurato, nella sua vita passata. Come conseguenza, egli si apre, lentamente, al mondo e all’umanità. Inizia ad accettare i cibi esotici che i suoi vicini di casa insistono ad offrirgli e impara a rispettare gli usi e i costumi di questo microcosmo asiatico che, precedentemente, aveva osservato solo da dietro una barriera di diffidenza e rabbia. Il nuovo corso affettivo proviene dalle stesse persone che, per anni, aveva sprezzantemente definito “musi gialli”. Soprattutto, egli permette a se stesso di provare sentimenti sconosciuti o, da troppo tempo, dimenticati scoprendo, nella famiglia asiatica, un luogo di affetti genuini e di relazioni autentiche.
Si può quindi comprendere la rabbia furiosa e, apparentemente, incontrollata che Kowalski sente quando una odiosa banda di teppisti distrugge la vita dei suoi due giovani amici asiatici. Thao viene percosso e umiliato, mentre Sue è violentata.
Questo è il punto preciso della storia in cui il regista deve costruire il passaggio dalla prima alla seconda parte dell’azione. Fino a questo momento, sul piano narrativo, potremmo sostenere la presenza di una certa convenzionalità. Il punto di svolta dovrebbe apparire credibile o probabile, sia pur sforzandosi di apparire originale.
Ecco perché, dopo le terribili e umilianti violenze subite dai due ragazzi asiatici, ci aspetteremmo la discesa in campo di un rinnovato ispettore Callaghan armato, furioso e deciso a vendicare ogni torto, distruggendo i cattivi. L’ispettore Harry Callaghan, implacabile e violento cacciatore di criminali è un personaggio che Eastwood giocò, nella prima parte della sua carriera, in ben tre film e divenne estremamente popolare nella “maggioranza silenziosa” dell’era Nixon.
Ma qui l’Eastwood regista realizza il “piccolo prodigio” cui si è sopra accennato. Viene violata la regola del cinema popolare. Quando ci aspettiamo che Kowalski estragga la sua pistola, per sterminare la banda dei teppisti criminali, egli invece si offre, fino a diventare bersaglio per le loro armi, determinando così il loro arresto, senza spargimento di sangue diverso dal suo. L’arte di resistere al male con mezzi non violenti è la suprema saggezza del vecchio soldato. Ed è anche lo shock con cui Eastwood decostruisce il suo storico personaggio e la narrazione tradizionale dei film di genere violento o guerresco. Cosa sarebbe successo se Ettore, invece di uccidere Patroclo e insultare il suo cadavere, avesse ignorato l’offesa originale e si fosse ritirato dentro alle mura di Troia? Forse Achille non avrebbe mai accettato di riprendere la lotta.
Avviene, in Kowalski, quella che Jung definì una enantiodromia; ovvero una “caduta nell’opposto”, che si verifica ogni volta che la coscienza assume un atteggiamento unilaterale, rispetto ai più contraddittori contenuti dell’inconscio. Chi cerca di differenziarsi dall’inconscio con la semplice rimozione, cade nel rovesciamento perché, semplicemente, l’inconscio lo afferra alle spalle. Questo mutamento avviene in virtù del processo di iniziazione, rispetto al riconoscimento e alla diversità dell’Altro, che il protagonista ha vissuto nel contatto con i due ragazzi asiatici.
Kowalski si sacrifica e muore raggiungendo la “redenzione” per tutti i suoi peccati passati e il suo corpo, che la cinepresa vede dall’alto, rimane a terra con le braccia tese su una croce invisibile, come una eco del sacrificio di Cristo.