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Filmologia e Psicoanalisi

 

Alberto Angelini

FILMOLOGIA E PSICOANALISI: Saggio con esempi filmici e contributi teorici

 

Alberto Angelini (2025) – albertoangelini10@gmail.com

Editoria Indipendente

 

Quando si affronta la cinematografia come fenomeno storico complesso non è semplice, utilizzando i concetti psicoanalitici, separare ciò che è di specifica competenza filmologica da ciò che riguarda la psicoanalisi in sè, compresi i suoi problemi di metodo. Per alcuni autori, anche non psicoanalisti, le idee psicoanalitiche e la filmologia hanno fatto intrinsecamente parte di un solo discorso e sono state impiegate nello svolgimento di tutti i loro lavori. Questa alleanza, in certi periodi, ha rappresentato un modo euristicamente utile e unico per avanzare nella conoscenza del cinema. Ciò ha prodotto grandi risultati, ma ha anche proposto notevoli interrogativi. Nei fatti, alcuni dei classici problemi di metodo della psicoanalisi, frequentemente trascurati, sono emigrati nel contesto dell’impiego filmologico.

La psicoanalisi e il cinema hanno intrecciato i loro percorsi a partire dai primi esordi, per tutto il Novecento, fino ai giorni nostri. Molti film sono stati ispirati da temi psicoanalitici e, con gran frequenza, gli studiosi hanno interpretato dei film con i concetti della psicoanalisi. Accanto a ciò, ancor più importante è che, sul piano della ricerca, si sia sviluppata una vera e propria teoria psicoanalitica del cinema. Il contributo più rilevante della psicoanalisi è la sua attenzione riguardo ai meccanismi inconsci che possono entrare in gioco nella percezione del film, da parte dello spettatore. Però è stato anche studiato, in senso psicoanalitico, il rapporto del cinema col mondo storico, con la cultura e con la società nel suo insieme.

Nella storia della psicoanalisi, va riconosciuto a Lou Andreas Salomé il primo pensiero riflessivo sul cinema. Ella, già nel 1913, mentre seguiva a Vienna le lezioni e i dibattiti della Società psicoanalitica annotava nel suo diario come solo la tecnica cinematografica permettesse una rapidità di successione delle immagini in grado, più o meno, di corrispondere alle “nostre facoltà di rappresentazione”, imitando anche la “versatilità” delle medesime. Le antesignane osservazioni della psicoanalista però, furono pubblicate solo nel 1958. La Salomé anticipò anche alcune importanti osservazioni psicologiche sulle diversità tra teatro e cinema. A differenza delle rappresentazioni teatrali e della “pesantezza del movimento simulato della vita, sulla scena del teatro”, il cinema consente “di abbandonarci più liberamente all’illusione”. Inoltre «esso arricchisce i nostri sensi di una profusione di immagini, di forme e di impressioni tali da renderlo una sorta di dono…una fuga verso l’arte» (Salomè, I miei anni con Freud, diario 1912-1913, 1958).

Riguardo a Freud, va ricordato che egli non era particolarmente entusiasta del nuovo mezzo espressivo cinematografico. Rieber e Kelly ricordano «la convinzione di Freud che fosse impossibile “rappresentare graficamente la natura astratta del nostro pensiero in una forma rispettabile”. (Freud rifiutò in diverse occasioni le offerte di scrivere una sceneggiatura fotografica, declinando anche un’offerta di 100.000 dollari da parte di Samuel Goldwyn, una fortuna all’epoca.)» (Rieber e Kelly, Film, Television and the Psychology of the Social Dream, 2014). Col termine filmologia, s’intende la disciplina, nata intorno alla metà del Novecento, soprattutto ad opera dei primi lavori di Gilbert Cohen-Séat. Essa ebbe formalmente origine con la fondazione, nel 1946, dell’Association pour la recherche filmologique e, nel 1947, con la nascita dell’Institut de filmologie, presso l’università parigina della Sorbona. L’intento era quello di coinvolgere, nello studio dei film e del cinema, specialisti nei vari campi delle cosiddette scienze umane; essenzialmente, la psicologia, la sociologia, la psicofisiologia, la psicoanalisi, la semiologia e l’estetica. Quindi la filmologia, per statuto, è la disciplina che studia la cinematografia in tutti i suoi aspetti, secondo più saperi. La letteratura sull’argomento è smisurata. In questo lavoro s’intende offrire una indicativa sintesi, evidenziando i concetti ritenuti utili per l’approfondimento. I diversi ambiti di studio filmologico sono concepiti come strumenti di ricerca. Anche solo per questo motivo, la filmologia risulta spontaneamente e positivamente estranea a quella tendenza allo specialismo dottrinario dilagato in molti contesti, che ha contagiato anche anche il mondo psicoanalitico.

Personaggi indimanticabili parteciparono all’esordio, negli anni Quaranta. Tra essi: Georges Sadoul, André Bazin, Edgar Morin e, in seguito, Roland Barthes. Per la psicologia Henri Wallon, assieme ai coniugi Bianka e René Zazzo. In ambito specificamente psicoanalitico: Cesare Musatti, Didier Anzieur e Serge Lebovici. I risultati delle ricerche filmologiche furono, per lo più, pubblicati nella Revue internationale de filmologie, diretta da Cohen-Séat, di cui uscirono 39 numeri, tra il 1947 e il 1961. Nel 1962, la rivista si trasformò in Ikon: cinéma, télévision, iconographie. Revue internationale de filmologie, e fu acquisita dall’Istituto Agostino Gemelli di Milano. In Italia, ciò avrebbe alimentato un notevole sviluppo di ricerche filmologiche. Valga ricordare in quel contesto, oltre a Musatti, studiosi di cinema come Leonardo Ancona, Dario Romano, Antonio Imbasciati e Riccardo Luccio.

Sia la filmologia, sia la psicoanalisi confliggono con la problematica metodologica dello specialismo. Questa tendenza diffusa e automatica

alla separazione concettuale e dottrinaria emerge, in ambito filmologico, fin da quando l’opera filmica, come oggetto d’indagine estetica o psicologica, viene separata dalla cinematografia come fenomeno sociale e mentale complesso. Nonostante la filmologia richieda spontaneamente

competenze multidisciplinari, permane la tendenza a dividere la ricerca in differenti aree di competenza. Da una parte viene indicato il fatto filmico, cioè il film inteso come prodotto artistico. In questo caso si vanno ad

analizzare gli aspetti narrativi e denotativi, ovvero i contenuti interni, estetici e psicologici dell’opera, utilizzando in quest’ambito specifico i diversi e possibili approcci teorici disciplinari. Il punto di vista psicoanalitico si è rivelato fondamentale, in questo tipo d’indagine.

D’altra parte, si designa il fatto cinematografico, ovvero il film inteso come fenomeno percepito e considerato nel contesto sociale e culturale in cui è prodotto e diffuso. In sostanza, si vanno ad analizzare non solo gli aspetti narrativi e denotativi ma anche, complessivamente, quelli artistici,

filosofici, sociologici, fisiologici, psicologici, etici e così via del testo e del contesto audiovisuale; ovvero la dimensione filmologica complessiva dell’opera.

L’indagine del fatto cinematografico è spontaneamente multidisciplinare e dialettica. Utilizzando ogni adeguato e valido punto di vista, sono attribuiti al film i suoi significati concettuali e connotativi di tipo filmologico, che vanno considerati interni all’opera e al contesto in cui essa è prodotta e proposta. Nell’ambito di questo lavoro, viene primariamente presa in considerazione la dimensione storica della filmologia, intesa come fatto cinematografico, ponendo attenzione al contesto culturale e all’ambiente sociale di  diffusione. Nel movimento psicoanalitico contemporaneo, invece, prevalgono nettamente i lavori dedicati al fatto filmico, cioè alla interpretazione di uno o più film effettuata, grosso modo, con gli stessi criteri utilizzati per analizzare un sogno o un caso clinico. Inizialmente, i principali materiali di riferimento per la teoria del film psicoanalitico sono

stati dei classici testi freudiani. Freud non discute mai di cinema né propone una analogia tra sogno e film. Però egli interpreta il sogno come “appagamento mascherato di un desiderio” o come fantasia. Questo porta all’analisi del cinema come spazio fantastico. Attualmente, ogni autore produce queste interpretazioni in sintonia con le proprie convinzioni teoriche: freudiane classiche, junghiane, kleiniane, lacaniane e così via. Queste teorie sono varie e non universalmente condivise. Il problema epistemologico della psicoanalisi è sempre in discussione e purtroppo non è ancora comparso un nuovo paradigma teorico condiviso globalmente. Tuttora, i singoli aderiscono a teorie diverse, ciascuno nella convinzione di utilizzare lo strumento migliore. Nonostante ciò, queste teorie, un po’ come le convinzioni religiose e le ideologie politiche, hanno comunque un valore euristico, perché consentono di pensare e sviluppare concetti che non verrebbero evocati in altri modi.

Per statuto, la filmologia studia il cinema in una prospettiva multidisciplinare. La psicoanalisi, elettivamente, è stato il sapere che ha dato contributi eccezionali alla filmologia. Freud, a suo tempo, utilizzò il metodo dell’interpretazione psicoanalitica, mediato dall’analisi dei sogni, riguardo a testi letterari e opere d’arte come dipinti o statue. Ciò ha fornito ispirazione per la critica psicoanalitica in diversi rami delle discipline umanistiche, inclusi gli studi sul cinema. In realtà il contributo più caratteristico della teoria psicoanalitica del cinema è la sua capacità di esaminare i meccanismi inconsci della relazione fra film e spettatore. A partire dalla metà del Novecento, la psicoanalisi sviluppò un approccio autonomo allo studio del cinema, inizialmente elaborato nelle riflessioni di Jean-Louis Baudry, di Raymond Bellour e di Christian Metz, che avevano messo in evidenza come, nella dinamica fra schermo e spettatore, si attivino particolari meccanismi inconsci.  In seguito, questo filone di pensiero trovò un suo spazio e si manifestò, in più modi, proprio all’interno del movimento psicoanalitico e delle sue istituzioni. Autori rilevanti furono coinvolti, nell’ultima parte del Novecento, come Schneider, Greenberg, Kaplan e Gabbard and Gabbard.  Si trattò, sostanzialmente, di un proseguimento, in ambito cinematografico e filmologico, di una lunga tradizione psicoanalitica di ricerche sull’arte iniziata come accennato con lo stesso Freud, che ebbe in Ernst Kris un esponente apicale e maturò nella seconda metà del secolo scorso.

La prospettiva psicoanalitica ha esaminato la situazione mentalmente regressiva dello spettatore e i molteplici aspetti psicodinamici collegati alle dimensioni fantastiche, oniriche e di desiderio presenti nel pubblico. Inoltre, sono stati proposti studi sul valore psichico del montaggio cinematografico, sul significato sociale della censura e altro.

In Russia, prima e dopo la rivoluzione, la psicoanalisi fu molto studiata e apprezzata per i contributi che poteva dare, in modo versatile e globale, nel mondo sociale, nella politica e nell’arte. Nella neonata Unione Sovietica, anche con attenzione all’uso propagandistico, fu dato grande impulso allo sviluppo del cinema, sia nella produzione di film, sia rispetto ai contributi teorici sull’argomento. Spicca, tra gli altri il lavoro dell’importante regista Sergej M. Ejzenštejn. Ciò accadde nel periodo precedente alla devastazione stalinista che avrebbe congelato completamente interi settori della cultura e della scienza del mondo russo, per decenni. Ejzenštejn s’interessò molto alla psicoanalisi, fu amico di Vygotskij, promotore della teoria psicologica storico-culturale e di Aleksandr Lurija, capostipite della neuropsicologia che, nei primi anni Venti, avevano sostenuto le teorie freudiane in Russia. Vygotskij, grande figura nella storia della psicologia del Novecento, s’interessò molto all’arte. La sua prima opera giovanile, La tragedia di Amleto (1915-16), coincide col periodo in cui nacque la sua amicizia con Ejzenštejn. In seguito egli avrebbe, tra l’altro,  pubblicato il volume Psicologia dell’Arte (1925), abbracciando la nozione d’inconscio, ma collegando quest’ultimo sistematicamente alle funzioni della coscienza. Sempre Vygotskij, nel 1932, pubblicò Sulla psicologia della creatività dell’attore, un prezioso articolo dove, riflettendo sulla recitazione, si afferma che, per comprendere il significato delle emozioni, non solo dell’attore, è necessario storicizzarle. La dimensione storica e culturale interviene sia nella formazione delle idee e delle credenze, sia nel modo in cui si sviluppano i sentimenti. Le due dimensioni non possono essere separate. Molti concetti presenti nei lavori filmici e teorici di Ejzenštejn provengono dal pensiero di Vygotskij, che ebbe un atteggiamento complessivamente favorevole, anche se parzialmente critico verso la psicoanalisi. Il regista fu amico di Hanns Sachs e conobbe Otto Rank, Sándor Ferenczi, Franz Alexander e Wilhelm Reich, rimanendo affascinato dal pensiero freudiano. Tra i vari concetti, Ejzenštejn fu molto attratto dalla regressione; donde l’attenzione per l’ipnosi. Nei suoi studi sul montggio, egli accosta la percezione cinematografica e artistica in genere, allo stato ipnotico, in cui si verifica una regressione psichica. Seguendo il pensiero del regista, l’arte si propone come una grande impresa antropologica intrinseca alla cultura umana e capace di evolversi nel corso della storia. Di conseguenza, il problema del metodo si colloca al primo posto. In questa impresa principale confluiscono poi tutti i contributi provenienti da ogni prospettiva e da varie discipline, non solo umanistiche: dall’antropologia alla linguistica, dalla psicologia alla storia dell’arte, dalla sociologia all’estetica, senza dimenticare gli aspetti biologici e la stessa tecnologia cinematografica. Il comune denominatore, che consente questa universalità concettuale, è la filosofia dialettica di provenienza hegeliana e marxista. Sia per Ejzenštejn, sia per Vygotskij, la filosofia dialettica rappresenta il modello più avanzato d’indagine e conoscenza, nell’arte come nella psicologia, in ambito teorico e pratico. Il cinema ricompone dialetticamente quel pensiero speculativo che tiene distinte coppie di opposti come ragione e sentimento, arte e scienza, astrazione e attività concreta. Il cinema possiede questa facoltà, ideale e concreta, proprio per la sua capacità di acquisire il movimento. Nell’originale intuizione di Ejzenštejn, il “discorso del cinema” è simile al “discorso del pensiero”, che non può mai essere statico. Lo strumento cinematografico intreccia, come avviene nella psiche, la dimensione affettiva con il pensiero astratto. Questa ricomposizione di conoscenze e sentimenti contrasta la frammentazione concettuale che minaccia analogamente sia la filmologia, sia la psicoanalisi. Entrambe le discipline, ma non solo esse, confliggono con la problematica metodologica dello specialismo. La tendenza diffusa e automatica alla separazione concettuale e dottrinaria dei saperi, fortunatamente, non si può affermare nell’ambito filmologico o in quello psicoanalitico.

Il volume contiene un saggio teorico inedito e raccoglie una antologia di esempi filmici e articoli.

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