Paura e psicologia pensando a Hitchcock

Paura e psicologia pensando a Hitchcock

Pubblicato in “Eidos,: Cinema e Psyche”, n. 49/2021

Alberto Angelini

Aristotele, nella Poetica, definisce la paura come la sofferenza per un male imminente e ineludibile. Essa è legata alla previsione di tale male più che al suo improvviso manifestarsi; quindi non è immediata, ma deriva dall’idea di non poter contrastare questo male imminente. Secondo Aristotele, nella tragedia, gli spettatori sono portati a provare terrore perché conoscono già dall’inizio la conclusione del mito ed i suoi eventi rovinosi. Lo stesso accade in un film thriller; si sa dall’inizio che sarà inevitabile assistere a scene impressionanti e per questo la tensione ci pervade in una emozione che evoca paura.

Insieme alla pietà, la paura, secondo Aristotele, permette la catarsi, cioè la purificazione dell’anima, o meglio della psiche. Quest’ultima, con la rappresentazione di vicende che suscitano forti emozioni, si immedesima nei personaggi o proietta su di essi le sue emozioni, condividendo con tali personaggi passioni e turbamenti. Come effetto, queste apprensioni vengono sublimate e si riesce a meglio governarle.

Per Hitchcock lo spettatore è come un bambino, ma non innocente; semplicemente non ha ancora incontrato il male e quindi non conosce la colpa. In lui domina la “pozza stagnante” della noia, con la sua mancanza di colore emotivo, che il film andrà a sgominare. Così, controvoglia, il pubblico scoprirà di essere colpevole, come lo è ogni essere adulto. Allora la paura sarà parte di un gioco perverso, in gran parte inconscio, che avvicinerà gli astanti al composto ribollente degli istinti primitivi, ovvero il sesso e la violenza, perdutamente attraenti, ma rigorosamente ingabbiati e centellinati dalle norme della civiltà.

Sul piano psicoanalitico, il discorso è quasi banale: gli istinti considerati asociali e pericolosi sono presenti in ognuno di noi. Ciò che distingue un criminale dalle persone comuni è che i criminali passano all’azione, mentre gli altri si limitano a sognarla o immaginarla. Lo spettatore non vuole trovarsi dalla parte dei malvagi. Nello schema delle storie terrorizzanti, in genere, la fase della paura è seguita da un momento di catarsi, in cui colui che era l’incarnazione o la manifestazione del male viene sconfitto e si passa, dunque, dalla forte paura a una sensazione di benessere conseguente al piacere della vittoria e alla punizione del cattivo.

Nelle opere di Hitchcock, qualche volta ciò non è vero; come quando gli uccelli scacciano gli abitanti da Bodega Bay, nel film omonimo. In effetti è una storia che parla della fragilità umana. Ci si rende conto che gli uccelli non sono veramente uccelli e sembra quasi che l’autore voglia offrir loro la possibilità di combattere alla pari.

Dal punto di vista psicofisiologico, la paura è una “eccitazione”. La paura e il piacere sono due emozioni molto vicine che scatenano reazioni dotate di similitudini. Esiste però una condizione: affinchè la paura possa evocare qulcosa di attraente, essa deve provenire da una situazione che può esser tenuta sotto controllo. Quale situazione migliore, in tale prospettiva, di quella cinematografica? È questo che porta gli spettatori al cinema, così simile al sogno, col buio della sala, la comodità delle poltrone e l’isolamento dal mondo esterno.

Ne La finestra sul cortile di Hitchcock, il trucco nel trucco consiste nel fare in modo che lo spettatore sia più informato dei protagonisti della storia. Un raro esempio di “verosomiglianza del possibile” che offre più potere critico al pubblico, senza diminuire la carica drammatica del film.

La trasmissione della paura e del turbamento è ancor più forte, quando vi sia una adeguata colonna musicale ad accompagnare le immagini. La musica è un mezzo efficacissimo per predisporre all’ansia e all’inquietudine, o per sottolinearle. La colonna sonora di un thriller determina il coinvolgimento di più sensi nell’accogliere lo stesso messaggio emotivo.

La celebre e magistrale scena dell’assassinio sotto la doccia, in Psycho di Hitchcock, non avrebbe la stessa potenza, sullo spettatore, senza l’ostinato per archi di Bernard Herrmann. Il “paradosso della finzione“, cioè l’idea che uno spettatore provi emozioni di fronte a qualcosa che non esiste realmente, è determinato da un concerto di stimoli audiovisivi ma, come si è accennato, anche dalla contemporanea deprivazione degli stimoli provenienti dal mondo esterno.

Per inciso, l’introduzione dei sistemi di realtà virtuale, negli ultimi tempi, ha reso molto complesso il processo di allontanamento dal personaggio: non si gioca più solo in prima persona, ma il giocatore è dentro alla storia.

Esistono anche delle condizioni di tipo drammaturgico, di fatto appartenenti alla psicologia elementare, che gli autori hanno sempre accolto spontaneamente nelle loro opere. Mentre è possibile, in senso psicologico, “fingere” con sé stessi un’emozione o una paura, i giudizi morali non possono essere falsificati. Anche al cinema, posso “far finta” di credere ad un fantasma, ma non posso “far finta” che tradire i miei amici abbandonandoli al loro destino, per mettere in salvo me stesso, sia giusto. È un esempio di quelle esperienze filmiche che ci allontanano, fortemente, dal reale quotidiano e familiare e che, a volte, ci fanno scorgere qualcosa che normalmente non vedremmo.

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